Consulta: valore della richiesta della prestazione previdenziale nel ricorso giudiziale

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Con sentenza n 241 del 20 novembre 2017, la Corte Costituzionale ha affermato la illegittimità, per manifesta irragionevolezza, dell ‘ultimo periodo dell’art. 152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, introdotto con l’art. 38, comma 1, lettera b), n. 2, del D.L. n. 98/2011, varato al fine di evitare, nei giudizi concernenti le prestazioni previdenziali, liquidazioni di spese processuali molto onerose rispetto al “petitum”.

La mancata quantificazione del valore della prestazione richiesta non determinerà più l’inammissibilità del ricorso.

 

 

Fonte: Corte Costituzionale

 

 


 

SENTENZA N. 241

ANNO 2017

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, come modificato dall’art. 38, comma 1, lettera b), n. 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, promosso dalla Corte d’appello di Torino nel procedimento vertente tra l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e M. L., nella qualità di genitore del minore M. D. D. A., con ordinanza del 6 marzo 2015, iscritta al n. 203 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 26 settembre 2017 il Giudice relatore Giulio Prosperetti;

uditi l’avvocato Luigi Caliulo per l’INPS e l’avvocato dello Stato Giammario Rocchitta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 6 marzo 2015 la Corte d’appello di Torino, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’ultimo periodo dell’art. 152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, come modificato dall’art. 38, comma 1, lettera b), n. 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, che, nei giudizi per prestazioni previdenziali, sanziona, con l’inammissibilità del ricorso, l’omessa indicazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, il cui importo deve essere specificato nelle conclusioni dell’atto introduttivo.

2.– Il giudice rimettente premette che è stato sottoposto al suo esame l’appello, proposto dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), avverso la decisione di primo grado con cui il Tribunale di Torino ha riconosciuto il diritto alla pensione di reversibilità dell’ascendente in favore del nipote, ancorché i genitori non fossero totalmente privi di reddito.

In particolare, il giudice a quo espone che la decisione è stata assunta nell’ambito di un giudizio proposto dalla madre per la condanna dell’INPS al ripristino della reversibilità, in favore del figlio, del trattamento pensionistico spettante al nonno materno che, in vita, aveva provveduto al mantenimento del nipote con lui convivente, nonché per la declaratoria di illegittimità della contestuale richiesta di ripetizione di indebito, formulata dal medesimo ente, avente ad oggetto i ratei di pensione erogati dal 1° settembre 2009 al 30 giugno 2012, pari ad euro 31.232,77.

3.– Avverso tale decisione, prosegue il rimettente, ha proposto appello l’INPS, eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso di primo grado per mancato rispetto della previsione di cui all’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., che, a pena di inammissibilità, prescrive di indicare nell’atto introduttivo del giudizio il valore della prestazione richiesta.

Su tale eccezione si è soffermato il Collegio rimettente che dubita della compatibilità costituzionale dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ. per contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU), poiché la sanzione dell’inammissibilità del ricorso costituirebbe una reazione sproporzionata ed irragionevole, rispetto all’obiettivo avuto di mira dal legislatore, di evitare, nei giudizi per prestazioni previdenziali, le liquidazioni di spese processuali esorbitanti rispetto al valore della controversia.

In particolare, la Corte d’appello osserva che l’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., vincola il giudice ad una liquidazione delle spese di lite non superiore al valore del capitale ed è a tale fine che si impone alla parte di rendere la dichiarazione relativa al valore della prestazione. La sanzione dell’inammissibilità, comminabile in caso di inadempimento a tale obbligo, determinerebbe il venir meno della potestas iudicandi del giudice, rilevabile, d’ufficio o su eccezione di parte, in ogni stato e grado del procedimento, tuttavia la gravità della sanzione la renderebbe manifestamente irragionevole in relazione allo scopo perseguito. La manifesta irragionevolezza della previsione censurata, prosegue il rimettente, sarebbe resa ancor più evidente in casi, come quelli del giudizio a quo, in cui la liquidazione delle spese sia avvenuta correttamente.

Tale correttezza sarebbe desumibile dall’assenza di uno specifico motivo di gravame relativo al capo della sentenza di liquidazione delle spese; tuttavia, una volta verificata la violazione dell’obbligo di legge, sarebbe precluso al giudice valutare l’incidenza dell’omissione iniziale rispetto al fine dichiarato dalla legge, a nulla rilevando che il limite legale alla liquidazione giudiziale sia stato rispettato in concreto.

4.– Il rigore letterale della norma, secondo la Corte d’appello, non potrebbe essere superato accedendo all’interpretazione “costituzionalmente orientata” suggerita dall’appellata, ovvero mediante l’applicazione analogica della previsione di cui al secondo comma dell’art. 445-bis cod. proc. civ., poiché, nelle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria a cui esso si riferisce, il previo esperimento dell’accertamento tecnico preventivo integrerebbe una condizione di procedibilità della domanda e non una condizione di ammissibilità di essa, di cui all’art. 152 disp. att. cod. proc. civ.

5.– A parere del Collegio rimettente, neppure sarebbe possibile disapplicare la sanzione dell’inammissibilità quando il valore della prestazione richiesta emerga dal contesto complessivo dell’atto introduttivo, poiché la dizione letterale della norma richiederebbe in modo non equivoco la dichiarazione esplicita e, conseguentemente, il giudice non potrebbe sottrarsi da una pronuncia in rito, ancorché, come nella specie, l’eccezione sia stata sollevata in secondo grado e il gravame non abbia specificamente investito la liquidazione delle spese, da ritenersi pertanto correttamente eseguita.

6.– La sproporzione tra il mezzo (l’inammissibilità della domanda) ed il risultato (il contenimento della liquidazione delle spese giudiziali), determinato dalla gravità della sanzione prescritta, secondo il giudice a quo, non solo sarebbe irragionevole, ma verrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, comma 1, CEDU, che consente le limitazioni all’accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali solo se proporzionate allo scopo perseguito.

La sproporzione sarebbe resa ancor più evidente in casi come quello di specie, sia perché una nuova iniziativa giudiziaria sarebbe minacciata dal maturarsi di termini di prescrizione e decadenza di un diritto che il giudice di prime cure ha già riconosciuto, sia perché l’oggetto del giudizio è costituito dalla richiesta di erogazione di una prestazione previdenziale ricadente nell’alveo di protezione dell’art. 38 Cost.

7.– In punto di rilevanza, la Corte d’appello rappresenta che l’esame dell’eccezione di inammissibilità non sarebbe precluso, essendo essa rilevabile anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, e che, poiché l’attrice non ha reso la dichiarazione nell’atto introduttivo, solo l’eliminazione della sanzione potrebbe consentire un esame nel merito della fondatezza della pretesa vantata e già affermata dal Tribunale di Torino.

8.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito l’INPS deducendo l’implausibilità della motivazione in ordine alla rilevanza della questione, non potendo la Corte d’appello desumere la correttezza della liquidazione delle spese di lite dall’assenza di un motivo specifico di gravame.

Nel merito, secondo l’Istituto previdenziale, la scelta del legislatore sarebbe espressione della sua discrezionalità e con essa sarebbe stato effettuato un corretto bilanciamento tra l’interesse ad impedire gli abusi del processo e quello alla tutela giurisdizionale.

Il soggetto interessato a conseguire la prestazione previdenziale, infatti, potrebbe sempre dare avvio ad un nuovo procedimento, poiché la declaratoria di inammissibilità non precluderebbe la riproposizione dell’azione giudiziaria.

9.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha dedotto che gli ultimi due periodi dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., sarebbero funzionalmente collegati ed entrambi diretti ad evitare l’uso strumentale del processo previdenziale solo per lucrare le spese di lite.

Il primo periodo della norma, infatti, vincola il giudice a non liquidare, per le spese di lite, un importo superiore al valore della prestazione dedotta in giudizio e il secondo, che costituisce l’oggetto della questione di legittimità costituzionale, impone, a tal fine, di indicare nell’atto introduttivo il valore della prestazione richiesta, a pena di inammissibilità.

Secondo la difesa erariale, il legame funzionale tra le due disposizioni autorizzerebbe una lettura teleologica di esse, per cui la sanzione dell’inammissibilità non sarebbe applicabile quando il valore della prestazione richiesta emerga dal contesto del ricorso, a prescindere da una dichiarazione esplicita, e lo scopo della norma sia raggiungibile.

A maggior ragione, prosegue l’Avvocatura, l’inammissibilità non potrebbe essere dichiarata quando, come nel giudizio a quo, sia indubitabile la correttezza della liquidazione delle spese in primo grado, determinandosi, di conseguenza, l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale prospettata.

In ogni caso, la difesa erariale rappresenta che l’inapplicabilità dell’art 152 disp. att. cod. proc. civ. deriverebbe dal fatto che il ricorso introduttivo conteneva anche la domanda di declaratoria di illegittimità della richiesta di ripetizione di quanto già versato al minore tra il 1° settembre 2009 e il 30 giungo 2012, per un importo esattamente quantificato in euro 31.232,77.

Quali ulteriori profili di inammissibilità l’Avvocatura dello Stato segnala il difetto di motivazione circa il carattere irragionevole e sproporzionato della sanzione, che sarebbe scrutinato solo con riferimento agli effetti prodotti nel giudizio d’appello, in cui è stato accertato che le spese non sono state liquidate in eccedenza, nonché la mancata sperimentazione di un’interpretazione costituzionalmente compatibile, che consenta al giudice di non applicare la sanzione quando possa trarre dall’atto elementi idonei a definire l’esatto valore della controversia.

10.– Nel merito la difesa erariale ha dedotto l’infondatezza della questione, con riferimento ad entrambi i parametri evocati, poiché la limitazione all’accesso alla tutela giurisdizionale in materia previdenziale sarebbe proporzionata all’esigenza di deflazione del contenzioso bagatellare, anche al fine di assicurare il buon andamento della gestione dell’INPS e la ragionevole durata dei processi.

 

Considerato in diritto

1.– La Corte di appello di Torino, sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’ultimo periodo dell’art. 152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, come modificato dall’art. 38, comma 1, lettera b), n. 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111 che, nei giudizi previdenziali, al fine di vincolare il giudice a liquidare le spese nei limiti di valore della prestazione dedotta, prescrive alla parte di indicare il suddetto valore nelle conclusioni del ricorso introduttivo.

L’adempimento è richiesto a pena di inammissibilità del ricorso e, secondo il giudice rimettente, la norma sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU), poiché la sanzione dell’inammissibilità sarebbe manifestamente irragionevole e sproporzionata rispetto al fine, perseguito dal legislatore, di garantire una congrua liquidazione delle spese giudiziali, in relazione al valore della prestazione richiesta.

Secondo il giudice a quo, la dichiarazione prescritta costituirebbe un presupposto processuale della domanda e la sua mancanza priverebbe il giudice della potestas judicandi, rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, né la lettera della norma, che impone una dichiarazione esplicita, autorizzerebbe a desumere il valore della prestazione dal contesto complessivo del ricorso.

L’obbligo dichiarativo si tradurrebbe, quindi, in una limitazione formale all’accesso alla tutela giurisdizionale, irragionevole e ingiustificata rispetto al fine di contenimento delle spese e, quindi, in contrasto con l’art. 3 Cost. e con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 6, comma 1, CEDU.

2.– L’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) ha eccepito l’inammissibilità del giudizio per difetto di motivazione sulla rilevanza poiché la Corte d’appello avrebbe desunto la correttezza della liquidazione delle spese giudiziali dall’assenza di motivi di gravame specifici sul punto, quando, invece, proprio la mancanza della dichiarazione di valore della prestazione dedotta in giudizio priverebbe l’interprete di riscontri fattuali concreti e ciò al fine di stabilire che la liquidazione delle spese sia avvenuta nel rispetto del limite di valore stabilito dall’art. 152 disp. att. cod. proc. civ.

L’eccezione non è fondata poiché dalla lettura dell’ordinanza emerge che il rimettente censura la previsione dell’inammissibilità in ragione della sua gravità e della non emendabilità a fronte di un inadempimento meramente formale, quale la mancata dichiarazione del valore della causa nell’atto introduttivo.

Il riferimento all’avvenuto raggiungimento dello scopo normativo è, a ben vedere, solo rafforzativo delle censure di irragionevolezza e sproporzione tra mezzo e fine e, infatti, la pronuncia invocata è di ablazione secca della previsione normativa, poiché la Corte d’appello mira all’eliminazione della sanzione che presidia il limite legale alla liquidazione delle spese nei giudizi previdenziali.

3.– L’Avvocatura generale dello Stato ha dedotto il difetto di rilevanza della questione perché l’art. 152 disp. att. cod. proc. civ. non sarebbe applicabile nel giudizio principale, il difetto di motivazione dell’ordinanza in relazione all’irragionevolezza e alla sproporzione della norma censurata nonché il mancato esperimento di una lettura costituzionalmente conforme.

4.– Il difetto di rilevanza, secondo la difesa erariale, deriverebbe dalla lettura sistematica e teologicamente orientata della norma che, in considerazione del fine perseguito dal legislatore, porterebbe ad escluderne l’applicazione quando, come avvenuto nella specie, sia stato accertato, in concreto, che non sono state liquidate spese di valore superiore a quello della prestazione dedotta.

Il giudice rimettente, però, ha fornito sufficienti argomentazioni in base alle quali ha ritenuto applicabile la norma censurata al giudizio incidentale, dando conto del fatto che il dato letterale dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ non consentirebbe di desumere il valore della prestazione dal contesto del ricorso, in difetto di una dichiarazione espressa, e ha individuato nell’avvenuto raggiungimento dello scopo della norma un argomento aggiuntivo della sua irragionevolezza e non un motivo che ne giustifichi la disapplicazione.

Il presupposto interpretativo da cui muove il giudice rimettente, fondato sulla lettera della norma, non risulta manifestamente implausibile (sentenza n. 13 del 2016) e l’eccezione di inammissibilità risulta pertanto infondata.

5.– La difesa erariale ha eccepito, inoltre, il difetto di motivazione dell’ordinanza poiché essa avrebbe argomentato l’irragionevolezza e la sproporzione della sanzione dell’inammissibilità solo in relazione all’avvenuto raggiungimento dello scopo della norma nel giudizio incidentale, mentre ha denunciato l’illegittimità costituzionale della norma in riferimento a tutti gli effetti derivabili dall’art. 152 disp. att. cod. proc. civ.

L’eccezione non merita accoglimento perché il giudice a quo ha, invece, individuato i motivi dell’irragionevolezza e della sproporzione, non solo nell’avvenuto raggiungimento dello scopo nel giudizio incidentale, ma in generale nella gravità e non emendabilità della sanzione prescritta, a fronte di un inadempimento formale, la cui mancanza costringerebbe la parte ad una nuova iniziativa giudiziaria, con possibili gravose conseguenze in ordine al maturarsi della decadenza e della prescrizione, con conseguente incisione del principio costituzionale di ragionevole durata del processo.

6.– Quanto, infine, al mancato esperimento di un’interpretazione costituzionalmente compatibile della norma censurata, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa erariale, essa è stata motivatamente esclusa dal rimettente e l’eccezione va respinta.

La Corte d’appello ha ritenuto che «il tenore letterale della norma ne comporta un’applicazione obbligata in tutti i casi in cui la parte non abbia assolto all’obbligo di legge», senza possibilità di attribuire ad essa un significato diverso da quello sospettato di illegittimità.

La difesa erariale ha suggerito un’interpretazione costituzionalmente orientata secondo cui si potrebbe escludere l’applicazione della disposizione nel caso in cui sia possibile desumere il valore della causa dal contesto complessivo dell’atto. Tuttavia tale interpretazione contrasta con il dato letterale, che richiede l’espressa quantificazione del valore nelle conclusioni dell’atto introduttivo; pertanto il presupposto interpretativo da cui muove il rimettente è corretto.

7.– Nel merito la questione è fondata.

L’ultimo capoverso dell’art 152 disp. att. cod. proc. civ, inserito dall’art. 38 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, in legge 15 luglio 2011, n. 111, prevede che «A tale fine la parte ricorrente, a pena di inammissibilità di ricorso, formula apposita dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l’importo nelle conclusioni dell’atto introduttivo».

Nel giudizio di costituzionalità è in discussione l’eccessiva gravosità della sanzione dell’inammissibilità, che integrerebbe una penalizzazione irragionevole e sproporzionata, a fronte di un mancato adempimento di rilevanza meramente formale, ed eccedente rispetto al fine perseguito dal legislatore.

8.– Il controllo di costituzionalità, vertendosi in materia di istituti processuali, per la cui conformazione il legislatore gode di ampia discrezionalità, deve limitarsi a riscontrare se sia stato o meno superato il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute (ex plurimis, sentenze n. 17 del 2011, n. 229 e n. 50 del 2010, n. 221 del 2008; ordinanza n. 141 del 2001). Tale riscontro va operato attraverso la verifica «che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988)» (sentenza n. 71 del 2015).

9.– L’ultima parte dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., oggetto di censura, deve essere letta congiuntamente alla previsione del capoverso immediatamente precedente, introdotto dall’art. 52 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), che stabilisce che il giudice, nei giudizi per prestazioni previdenziali, non può liquidare spese, competenze ed onorari superiori al valore della prestazione dedotta in giudizio.

La stretta correlazione che lega i due periodi è esplicita e la ratio sottesa al complessivo intervento normativo va ricercata nell’esigenza di evitare l’utilizzo abusivo del processo che, in materia previdenziale, veniva spesso instaurato per soddisfare pretese di valore economico irrisorio, al solo fine di conseguire le spese di lite.

Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria) si chiarisce che l’obbligo di dichiarare il valore della prestazione ha lo scopo di commisurare a tale valore il limite massimo alla liquidazione delle spese processuali (già introdotto dalla legge n. 69 del 2009), intendendosi così «scoraggiare fenomeni elusivi consistenti nella prassi di non quantificare il petitum, limitandosi a richiedere un accertamento generico ovvero indicando valori generici o richieste non sufficientemente quantificate» ed evidentemente pretestuose.

Entrambe le disposizioni esaminate, dunque, mirano a deflazionare il contenzioso bagatellare, ma quella che prevede di non liquidare le spese in misura superiore al «valore della prestazione dedotta in giudizio» è di per sé sola già idonea a perseguire pienamente lo scopo.

In particolare, essa è chiamata ad operare nel momento della liquidazione delle spese, normalmente coincidente con la fine del giudizio, quando il giudice conosce il valore della prestazione. Pertanto egli non avrà bisogno della quantificazione contenuta nell’atto introduttivo, ma sarà sottoposto al vincolo derivante dal limite legale imposto alla liquidazione.

L’effetto deflattivo a cui mira il suddetto limite è, comunque, conseguito ed è idoneo a scoraggiare l’instaurarsi di liti pretestuose.

L’obiettivo di evitare la strumentalizzazione del processo, attraverso la sanzione di inammissibilità, va bilanciato con la garanzia dell’accesso alla tutela giurisdizionale e della sua effettività.

Seppure, infatti, la declaratoria di inammissibilità non precluda la riproposizione dell’azione giudiziaria, essa si traduce comunque in un aggravio per la parte, che dovrà ricominciare ex novo il giudizio.

Pertanto, le conseguenze sfavorevoli derivanti dall’inammissibilità non sono adeguatamente bilanciate dall’interesse ad evitare l’abuso del processo che è già efficacemente realizzato dalla disciplina introdotta dalla novella di cui all’art. 52 della legge n. 69 del 2009.

L’eccessiva gravità della sanzione e delle sue conseguenze, rispetto al fine perseguito, comporta, quindi, la manifesta irragionevolezza dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., ultimo periodo, il quale prevede che «A tale fine la parte ricorrente, a pena di inammissibilità di ricorso, formula apposita dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l’importo nelle conclusioni dell’atto introduttivo».

10.– L’altro motivo di censura, dedotto con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 6, comma 1, CEDU, resta assorbito dall’esito della decisione.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 152, ultimo periodo, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, come modificato dall’art. 38, comma 1, lettera b), n. 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Giulio PROSPERETTI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2017.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

La Redazione

Autore: La Redazione

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