Articolo: Qualche riflessione in materia di diritto di accesso del datore di lavoro e tutela della riservatezza dei lavoratori
articolo di approfondimento di Marianna Russo (pubblicato sulla rivista Lavoro e Previdenza Oggi)
“La tutela dei dati sensibili, cioè delle informazioni personali idonee a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose o filosofiche, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati o associazioni, nonché lo stato di salute e la vita sessuale, si fonda non soltanto sul diritto to be alone di matrice anglosassone – oggi trasfuso nel moderno concetto di privacy – ma anche sulla necessaria applicazione del principio, costituzionalmente garantito, di uguaglianza e di pieno sviluppo della personalità umana, rimuovendo, appunto, gli insidiosi ostacoli di discriminazione.
Soltanto di recente l’attenzione del legislatore italiano si è focalizzata sulla protezione dei dati sensibili: il prodromo di questo interesse si rinviene nella Legge 31 maggio 1970, n. 300, il c.d. Statuto dei lavoratori, che, con l’art. 8 rubricato “Divieto di indagini sulle opinioni”, ha posto un argine al dilagante e invasivo potere di controllo del datore di lavoro “su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”.
Sono occorsi oltre venti anni prima che la tutela dei dati sensibili passasse da una disciplina speciale – rivolta ai prestatori di lavoro – alla disciplina generale, valida per tutti e posta a difesa del valore “riservatezza”. Infatti, solo nel 1996, con la Legge 31 dicembre 1996, n. 675, si è avuta una normativa compiuta e puntuale sul trattamento dei dati personali, successivamente riordinata nel c.d. Codice della privacy – il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 – che consta di ben 186 articoli.”