Articolo: Le assunzioni dei lavoratori titolari di Reddito di Cittadinanza – benefici e criticità
approfondimento di Eufranio Massi per The world of il Consulente (n. 97 – anno IX – aprile 2019)
Le assunzioni dei lavoratori titolari di Reddito di Cittadinanza – benefici e criticità
Con la legge di conversione n. 26, pubblicata sulla G.U. n. 75 del 29 marzo 2019, sono entrate, definitivamente, in vigore, con una serie di modifiche introdotte nel corso dell’esame parlamentare, le disposizioni già contenute nel D.L. n. 4 con il quale il Governo, con un unico provvedimento, aveva emanato le disposizioni attuative sia del reddito di cittadinanza che dell’anticipo pensionistico, la c.d. “quota 100”.
Si tratta di un testo particolarmente complesso che necessita, per la piena applicazione, una serie di atti amministrativi, in alcuni casi con un iter abbastanza complesso, (ne sono stati contati 38).
All’interno della materia trattata, mi soffermerò ad esaminare il solo articolo 8 che si occupa dei benefici riconosciuti ai datori di lavoro che assumono soggetti fruitori del reddito di cittadinanza.
L’obiettivo che si pone l’Esecutivo con il varo dell’art. 8 è quello di coniugare il reddito di cittadinanza destinato a soggetti ai limiti della soglia di povertà, con il loro ingresso nel mondo del lavoro, in costanza della fruizione dell’indennità.
Cercherò, senza alcun pregiudizio, di esaminare se tale obiettivo appare facilmente raggiungibile, in rapporto ai contenuti normativi espressi.
Campo di applicazione
Il datore di lavoro privato che intende effettuare assunzioni e fruire dei benefici richiamati dal Legislatore dovrà, preventivamente, comunicare le disponibilità relative ai posti vacanti, ad una apposita piattaforma digitale, dedicata al reddito di cittadinanza, creata dall’ANPAL: le assunzioni dovranno essere a tempo pieno ed indeterminato, anche stipulando un contratto di apprendistato e dovranno realizzarsi direttamente o tramite uno dei soggetti accreditati ex art. 12 del D.L.vo n. 150/2015 (ad esempio, agenzie di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale).
Prima di proseguire nella analisi ritengo opportuno effettuare alcune considerazioni e delucidazioni.
Il primo chiarimento riguarda il campo di applicazione.
La disposizione si riferisce a tutti i datori di lavoro privati, ivi compresi quelli che non sono imprenditori (studi professionali, associazioni di tendenza, fondazioni, ecc.), le aziende private a partecipazione pubblica e gli Enti pubblici economici: ne restano fuori tutte le Amministrazioni Pubbliche centrali, periferiche e locali richiamate, essenzialmente, dall’art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 165/2001, le c.d. “Authority” e comunque, tutti quegli Enti ed Istituzioni che ai fini dell’inquadramento strutturale nell’organico debbono ricorrere a concorsi pubblici o a procedure selettive ad evidenza pubblica.
Ho motivo di ritenere che, in via amministrativa, continuino ad essere esclusi soltanto quei datori di lavoro pubblici elencati, in modo preciso e puntuale, da numerose circolari dell’INPS come, da ultimo, dalla n. 40/2018 che si occupò dell’incentivo previsto dall’art. 1, commi 100 e seguenti, della legge n. 205/1917.
Tra i possibili destinatari ci rientrano anche i datori di lavoro domestici e le società cooperative di produzione e lavoro?
La norma non esclude i primi (altre volte, quando lo ha voluto, il Legislatore lo ha detto espressamente) come non esclude, assolutamente (attesa anche la piena equiparazione con i lavoratori subordinati avvenuta, nel corso degli anni) le società cooperative di produzione e lavoro che, dopo il rapporto associativo, stipulano un contratto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato con un socio, ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge n. 142/2001: del resto, anche altri benefici, vengono riconosciute per le assunzioni dei soci lavoratori.
La seconda questione che si presenta riguarda la tipologia contrattuale: si parla di contratto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato e di contratti di apprendistato (il Legislatore, senza dirlo chiaramente, si riferisce al professionalizzante) che è finalizzato alla formazione ed all’inserimento lavorativo dei giovani (la disposizione appare fattibile, pur se difficile, anche per gli “over 29” in quanto occorre – requisito indispensabile – la titolarità di un trattamento di disoccupazione non agricola, requisito che la gran parte dei soggetti interessati, non dovrebbe possedere). Non ritengo possibile, per ovvi motivi legati non soltanto all’età, l’apprendistato di primo livello e, poco probabile, quello di alta formazione e ricerca, disciplinato dall’art. 45 del D.L.vo n. 81/2015.
Il beneficio non è possibile per il contratto di lavoro intermittente a tempo indeterminato, atteso che le prestazioni avvengono “a chiamata” secondo le necessità del datore di lavoro ed hanno un carattere estremamente episodico e saltuario (nella maggior parte dei settori sussiste, in ogni caso, il vincolo delle 400 giornate in un triennio solare).
Il beneficio non si otterrà se l’assunzione sarà effettuata a tempo parziale e ritengo (anche se qui sarà opportuno attendere i chiarimenti amministrativi) che dovrebbe essere sospeso, in caso di trasformazione della stessa in prestazione a tempo parziale durante il periodo di “godimento” del beneficio, pur se realizzata nelle forme previste dall’art. 8, comma 2, del D.L.vo n. 81/2015). La sospensione dell’agevolazione deriverebbe dal fatto che viene meno uno degli elementi alla base dell’incentivo (il “full time”). Ugualmente, anche il contratto di apprendistato dovrà, necessariamente, essere a tempo pieno in quanto non appare possibile, seguendo il dettato normativo, un rapporto a tempo parziale, pur in presenza di una erogazione al 100% della formazione prevista dal piano.
Altro limite deriva dal fatto che l’art. 4, comma 9-bis, intervenendo sull’art. 25, comma 1, del D.L.vo n. 150/2015, ha definito “congrua” (e, quindi accettabile, dal lavoratore in reddito di cittadinanza) una offerta di lavoro non inferiore ad 858 euro, in ciò creando una disparità con un lavoratore che “gode” della NASPI ricollocato all’interno delle politiche attive del lavoro, per il quale l’offerta “congrua” una retribuzione superiore del 20% rispetto all’indennità percepita nell’ultimo mese precedente.
Una ulteriore criticità si registra, a mio avviso, nell’aver limitato l’agevolazione per l’assunzione alle sole ipotesi di rapporto a tempo pieno: si rischia di “tagliare fuori” settori (si pensi, alla grande distribuzione, al commercio, ai servizi di pulizie, alla logistica, ai “call-center”, all’agricoltura ove, la forma “normale” è quella degli operai agricoli a tempo determinato che prestano la loro attività, a giornate, per le raccolte stagionali, o all’edilizia ove si procede per “fasi lavorative”, tanto per citarne alcuni), ove il part-time ed il tempo determinato sono la “modalità normale” di instaurazione del rapporto e dove, più facilmente, può trovare occupazione chi si presenta sul mercato del lavoro con una minima o scarsa professionalità. Ciò potrebbe, gravemente, incidere sul buon esito del passaggio da una posizione passiva (reddito di cittadinanza) ad una attiva (lavoro subordinato).
Sussistono, poi, altri limiti di natura legale e contrattuale che potrebbero ridurre l’impatto occupazionale. Mi riferisco:
- All’art. 8, comma 3, del D.L.vo n. 81/2015 che riconosce un diritto di precedenza in favore dei malati gravi che, a seguito del miglioramento del proprio stato di salute, intendono ritrasformare a full-time il proprio contratto che, in passato, era a tempo pieno;
- Al successivo comma 6 che riconosce lo stesso diritto ai lavoratori a tempo parziale che intendano passare a tempo pieno per l’espletamento delle stesse mansioni;
- All’obbligo che grava, in via preventiva, sul datore di lavoro, dettato dal comma 8, circa la tempestiva comunicazione, in ambito comunale, in favore dei lavoratori a tempo parziale interessati alla trasformazione a tempo pieno, interessati da una assunzione “full time” che lo stesso deve effettuare;
- All’art. 24 che disciplina il diritto di precedenza dei lavoratori già occupati a termine per una assunzione a tempo indeterminato entro i dodici mesi dalla scadenza del precedente rapporto a termine;
- All’art. 31 del D.L.vo n. 150/2015 che non riconosce agevolazioni in presenza di alcune specifiche condizioni come, ad esempio, il non aver rispettato la precedenza;
- Alle norme di natura contrattuale che riconoscono diritti di precedenza in favore di lavoratori a termine, o a tempo parziale o in somministrazione a tempo determinato.
Misura del beneficio
Il comma 1 dell’art. 8 afferma che, ferma restando l’aliquota di computo dei contributi previdenziali ed assistenziali a carico del datore e del lavoratore, viene riconosciuto, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL (e, probabilmente, anche con l’esclusione della c.d. “contribuzione minore”, come affermato in analoghe situazioni, in passato dall’INPS – v., ad esempio, la circolare n. 40/2018), l’esonero nel limite mensile del “reddito di cittadinanza” goduto dal lavoratore al momento dell’assunzione per un periodo pari alla differenza tra diciotto mensilità e quelle già “fruite” dal beneficiario e, in ogni caso, non superiore a 780 euro mensili e non inferiore a cinque mensilità, tetto minimo che è, comunque, riconosciuto anche nella ipotesi prevista dall’art. 3, comma 6 (rinnovo del reddito di cittadinanza).
La disposizione continua disponendo che l’agevolazione (tranne l’ipotesi di cumulo con il “Bonus Sud”) non possa superare il totale dei contributi previdenziali carico del datore di lavoro e del lavoratore, con esclusione di quanto dovuto all’INAIL.
Quanto appena detto merita alcune considerazioni.
La prima riguarda l’ammontare del beneficio per il datore di lavoro: esso sarà tanto più alto quanto “più vicino” all’inizio della fruizione del reddito da parte del lavoratore. Si tratta, nella sostanza, di un principio non nuovo nel nostro ordinamento già presente nella legge n. 223/1991 per i lavoratori in mobilità (ora non c’è più) o per l’assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori in NASPI ex art. 7 del D.L. n. 76/2013, convertito nella legge n. 99 (allora si parlava di ASPI, ma il concetto è lo stesso).
La seconda concerne una particolare dizione contenuta nel comma 1: per la prima volta, parlando di sgravi contributivi non si parla solo della quota a carico del datore di lavoro, ma anche di quella a carico del lavoratore: di conseguenza l’agevolazione appare maggiore, pur se resta da chiedersi (e qui saranno indispensabili i chiarimenti che perverranno dal Ministero del lavoro o dall’INPS) se la quota andrà tutta al datore o, per la quota a suo carico, al dipendente. Se così fosse, quest’ultimo andrebbe a percepire più di un altro lavoratore assunto per le stesse mansioni, “al di fuori” della procedura legata al reddito di cittadinanza.
La terza considerazione riguarda l’interruzione del rapporto attraverso un licenziamento.
Cosa succede?
Qui, si afferma che se il recesso datoriale avverrà, nel triennio successivo all’assunzione, al di fuori della giusta causa o del giustificato motivo (ma non sussiste alcuna ulteriore specificazione tra oggettivo e soggettivo come, forse, sarebbe stato opportuno), il datore dovrà restituire quanto percepito maggiorato delle sanzioni civili ex art. 116, comma 8, lettera a) della legge n. 388/2000. Quest’ultima disposizione prevede, in ragione d’anno, un importo pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato del 5,5% con un tetto non superiore al 40% dei contributi e premi non corrisposti entro la scadenza di legge.
Ovviamente, in caso di dimissioni (avvenute con la procedura telematica ipotizzata dall’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015) o di risoluzione consensuale del rapporto, non sembra dovuta alcuna restituzione, atteso che la norma limita ne l’efficacia alla sola ipotesi del recesso datoriale, nei trentasei mesi successivi alla instaurazione del rapporto.
Il discorso relativo alla risoluzione del rapporto da parte del datore di lavoro dovrà tener conto del fatto che, in caso di contenzioso, troverà applicazione la normativa sulle “tutele crescenti” che, all’art. 2 del D.L.vo n. 23/2015 impone la reintegra in presenza di licenziamenti nulli in violazione di disposizioni di legge, ritorsivi, discriminatori o per carenza di motivazione in presenza di portatori di handicap, mentre all’art. 3, comma 1, l’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo dovuto a giusta causa, giustificato motivo oggettivo o soggettivo, legata all’anzianità aziendale (criterio principale) potrà, con motivazione, essere integrata dal giudice, con gli altri elementi che sono stati già individuati dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti dell’azienda, contesto socio economico, comportamento tenuto dalle parti, ecc.), secondo l’indirizzo espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 194 dell’8 novembre 2018 e fino ad un massimo di trentasei mensilità, calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del TFR (partendo da una base di sei) per i datori di lavoro dimensionati oltre le quindici unità (per quelli più piccoli il tetto massimo, partendo da tre mensilità resta fissato a sei).
Sotto l’aspetto prettamente normativo è opportuno ricordare come, essendo l’assunzione a tempo pieno ed indeterminato (con l’eccezione dell’apprendistato ove la computabilità è esclusa per tutta la durata del periodo formativo) il lavoratore rientrerà, da subito, nella base di calcolo per l’applicazione di istituti previsti dalla legge (ad esempio, collocamento dei disabili) o dalla contrattazione collettiva.
Contestualmente all’assunzione il datore di lavoro potrà stipulare presso il centro per l’impiego (ma non appare un obbligo, essendo rimesso alla valutazione della necessità), un patto finalizzato alla formazione o alla riqualificazione professionale del lavoratore.
Il comma 2 dell’art. 8 individua un’altra via per la fruizione dell’agevolazione: gli Enti di formazione accreditati (presso le singole Regioni e Provincie Autonome) hanno la facoltà di stipulare con i centri per l’impiego ed i soggetti accreditati ex art. 12 del D.L.vo n. 150/2015 (es. Agenzie per il Lavoro), ove ciò sia previsto da leggi regionali, un patto di formazione o di riqualificazione professionale finalizzato a garantire al beneficiario del reddito di cittadinanza un apprendimento di alta qualità con il coinvolgimento anche Università, Enti di ricerca, secondo indirizzi che saranno definiti dalla Conferenza Stato-Regioni e senza maggiori oneri per la finanza pubblica, con l’utilizzazione delle risorse e degli strumenti vigenti a legislazione vigente. Se a seguito di tale percorso il beneficiario di reddito di cittadinanza otterrà un posto di lavoro, coerente con il profilo formativo, stipulando un contratto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato, ferma restando l’aliquota di computo delle prestazioni previdenziali, verrà riconosciuto l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali a carico di entrambe le parti, con l’esclusione dei premi e contributi INAIL (e,come detto prima, probabilmente, anche, dei c.d. “contributi minori”), sotto forma di sgravio contributivo, per un periodo pari alla differenza tra diciotto mensilità e quelle già “godute” dal lavoratore, per un massimo, fino a concorrenza, di 390 euro mensili: l’incentivo, comunque, non può essere inferiore a sei mensilità, cosa prevista anche nell’ipotesi prevista ex art. 3, comma 6.
La residua parte del beneficio (390 euro per lo stesso periodo riconosciuto in favore del datore di lavoro assumente), sotto forma di sgravio contributivo da far valere per i propri dipendenti in forza, verrà erogato all’Ente di formazione accreditato che ha favorito la qualificazione o riqualificazione o riqualificazione professionale.
Anche in questo caso valgono le regole già esaminate in precedenza: se il lavoratore viene licenziato, al di fuori della giusta causa e del giustificato motivo (non essendoci specificazione presumo che il Legislatore faccia riferimento sia all’oggettivo che al soggettivo), il datore di lavoro è tenuto alla restituzione di quanto già percepito, con l’aggiunta delle maggiorazioni ex art. 116, comma 8, lettera a) della legge n. 388/2000 alle quali fo già fatto cenno pocanzi. Tale restituzione, ovviamente, non riguarderà l’Ente di formazione il cui compito è terminato con l’assunzione del lavoratore “formato” effettuata dal datore di lavoro
La Guardia di Finanza, previa convenzione con i Ministeri del Lavoro e dell’Economia, si vedrà affidati i compiti di controllo e di monitoraggio: tali compiti, in ogni caso, potranno essere espletati anche dagli organi di vigilanza degli Ispettorati territoriali del Lavoro e degli Istituti previdenziali nella loro “normale” attività di controllo volta a reprimere il lavoro nero ed irregolare.
L’iter per il godimento dello sgravio contributivo
Ma, cosa viene richiesto perché si possa fruire degli incentivi?
I requisiti sono diversi:
- L’assunzione deve essere incrementale: viene richiamato l’art. 31, comma 1, lettera f) del D.L.vo n. 150/2015 che trae origine da normative di origine comunitaria (art. 2, paragrafo 2, del Regolamento n. 1408/2013). Il calcolo va effettuato mensilmente, confrontando il numero dei lavoratori equivalente a tempo pieno del mese di riferimento con quello medio dei 12 mesi precedenti, con esclusione dal computo della base occupazionale media di chi abbia abbandonato il posto di lavoro per dimissioni volontarie (ora, possono essere tali soltanto se effettuate con la procedura richiamata dall’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015 o confermate avanti all’INL in caso di “lavoratrice in periodo protetto”), invalidità, pensionamento per raggiunti limiti di età ( i lavoratori che usufruiscono dell’APE non dovrebbero rientrarci in quanto si tratta di un prestito che anticipa il raggiungimento della vecchiaia), riduzione volontaria dell’orario di lavoro o licenziamento per giusta causa. In passato, in casi analoghi lo sgravio non è stato riconosciuto per i mesi in cui il datore era andato sotto la media. Il computo va effettuato tenendo presente l’impresa nel suo complesso e non l’unità produttiva interessata e, in caso di “impresa unica” (aziende correlate tra di loro attraverso un controllo o un collegamento) il calcolo va effettuato unitariamente. Per i datori di lavoro che iniziano l’attività in corso d’anno ogni assunzione a tempo pieno ed indeterminato avrà natura incrementale. Quest’ultima ipotesi appare agevolare le imprese di nuova costituzione;
- Il datore di lavoro deve essere in possesso della regolarità contributiva. Anche questa disposizione sembra favorire le nuove imprese che, iniziando le attività con i nuovi assunti, non hanno “pendenze” sotto l’aspetto contributivo;
- Il datore di lavoro deve essere in regola con gli altri obblighi di legge tra cui il non essere stato sanzionato per gravi violazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro, nel periodo in cui non consentono il rilascio del Documento di regolarità contributiva (sono quelle contenute nell’allegato al D.M. sul DURC del gennaio 2015);
- Le agevolazioni, afferma il comma 5 dell’art. 8, non spettano ai datori di lavoro che non siano in regola con le disposizioni previste dalla legge n. 68/1999 (regolarità delle “coperture occupazionali” riservate ai portatori di handicap), fatta salva l’ipotesi in cui l’assunzione riguardi il titolare del reddito di cittadinanza iscritti negli elenchi della predetta legge. “Essere in regola” con gli adempimenti della normativa, significa aver “coperto” anche gli eventuali posti riservati ai soggetti individuati dall’art. 18 (ad esempio, orfani, vedove di caduti sul lavoro o per fatti di criminalità o terrorismo) o, seppur carenti nell’obbligo, aver stipulato una convenzione ex art. 11 per un “cadenzamento temporale” dello stesso, o aver in atto compensazioni territoriali od esoneri parziali dall’obbligo dovuti ad una delle ipotesi previste dal Legislatore (pericolosità, insalubrità alta specializzazione, ecc.);
- Il datore di lavoro deve rispettare i trattamenti economici e normativi previsti dal CCNL di settore sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale e, se esistenti, a livello territoriale ed aziendale, Si ricorda che, per effetto di una disposizione contenuta nella legge n. 205/2017 dal 1° luglio 2018 tutte le retribuzioni debbono essere “tracciabili”;
- L’assunzione non deve avvenire in adempimento di un obbligo previsto da leggi (con la sola eccezione del disabile fruitore del reddito di cittadinanza, come previsto dal comma 5 dell’art. 8) o contratti collettivi;
- L’assunzione non deve violare diritti di precedenza stabiliti dalla legge (si pensi, ad esempio, a quello regolarmente esternato ex art. 24 del D.L.vo n. 81/2015, a quello ex art. 15, comma 6, della legge n. 264/1949, a quello ex art. 47 della legge n. 428/1990, a quello ex art. 8, comma 3, del D.L.vo n. 81/2015) o da contratti collettivi);
- L’assunzione non può avvenire in una unità produttiva ove siano in corso riduzioni o sospensioni di orario di lavoro con interventi di sostegno del reddito, se si tratta di un lavoratore con la medesima qualifica dei lavoratori in integrazione salariale;
- L’assunzione non può riguardare un lavoratore che, nei sei mesi antecedenti, sia stato licenziato dalla stessa impresa o da altre aziende in situazione di collegamento o di controllo anche per interposta persona;
- In caso di comunicazione tardiva della instaurazione del rapporto al sistema telematico del centro per l’impiego, l’agevolazione viene riconosciuta a partire dalla suddetta;
- Le agevolazioni sono concesse nel rispetto del “de minimis”.
Ora, due parole sul “de minimis” il cui superamento è visionabile dall’INPS attraverso la consultazione del Registro sugli aiuti di Stato, istituito presso il Ministero dello Sviluppo Economico.
Il Regolamento CE n. 1998/2006 della Commissione del 15 dicembre 2006, riguardante l’applicazione degli articoli 87 e 88 del Trattato, ha introdotto alcune deroghe concernenti sovvenzioni considerate di “importo minimo”, ritenendo che le stesse possano non essere considerate come “aiuti di Stato”. In via generale, non sono tali se non superano, in un arco triennale rappresentato da tre esercizi finanziari, la somma complessiva di 200.000 euro che nel settore del trasporto su strada scende a 100.000, in quello della pesca a 30.000 e nell’ambito della produzione di prodotti agricoli a 15.000.
Ai fini del “de minimis” la nozione di impresa è diversa da quella generalmente adottata: infatti, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, essa ricomprende ogni entità che esercita un’attività di tipo diverso. C’è, in ogni caso, da ricordare come il 18 dicembre 2013 sia stato approvato il Regolamento CE n. 1407/2013 che, sempre con riferimento, al “de minimis” individua alcuni criteri che, pur in presenza di una pluralità di aziende, riportano le stesse sotto il concetto di “impresa unica” ai fini dei limiti economici sopra evidenziati. Le ipotesi sono le seguenti:
- Quando un’impresa possiede la maggioranza dei diritti di voto degli azionisti o dei soci di altra impresa;
- Quando un’impresa ha il diritto di nominare e revocare la maggioranza dei componenti del consiglio di amministrazione, degli organi di direzione e di sorveglianza di altra azienda;
- Quando un’impresa esercita una influenza dominante verso un’altra azienda;
- Quando un’impresa azionista o socia di altra impresa controlla da sola, con accordi sottoscritti, la maggioranza dei diritti di voto.
Il Regolamento CE n. 1407/2013 fissa le disposizioni per il “de minimis” a partire dal 1° gennaio 2014: sostanzialmente, si pone in linea con il precedente n. 1998/2006, con alcune innovazioni formali il cui fine è quello di fornire un’interpretazione chiara a norme che in passato avevano dato adito a qualche perplessità), ma anche sostanziali.
E’ il caso dell’art. 1, par. 2, dove si statuisce che nell’ipotesi in cui un’impresa svolga sia attività rientranti nel campo di applicazione del Regolamento che in settori esclusi, la regola del “de minimis” trova applicazione soltanto relativamente alle attività ammesse, a condizione che lo Stato membro garantisca che le attività esercitate nei settori esclusi non beneficino degli aiuti “de minimis” concessi.
Per completezza di informazione ricordo che anche nel nuovo Regolamento sono elencati i settori esclusi che sono gli stessi compresi nel vecchio:
- Imprese operanti nel settore della pesca e dell’acquacoltura;
- Imprese della produzione primaria di prodotti agricoli;
- Imprese operanti nel settore della trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli, limitatamente ad alcune fattispecie;
- Imprese che usufruiscono di aiuti per attività connesse all’esportazione verso paesi terzi o Stati membri o direttamente collegati a quantitativi esportati;
- Imprese che fruiscono di aiuti subordinati all’impiego di prodotti nazionali rispetto a quelli di importazione.
Chiusa la parentesi relativa alla normativa sugli Aiuti di Stati, con l’esame del successivo comma 7 dell’art. 8, si torna ad esaminare il merito delle agevolazioni.
Viene riconosciuta la piena compatibilità e cumulabilità con il c.d. “Bonus Sud” previsto dall’art. 1, comma 247, della legge n. 145/2018, per gli anni 2019 e 2020 in favore delle assunzioni a tempo indeterminato (che, però, in questo caso debbono essere anche a tempo pieno) realizzate nelle unità produttive (anche di aziende con sede legale in altri contesti territoriali) ubicate nelle Regioni Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. Nel caso in cui il datore abbia esaurito la possibilità di usufruire degli sgravi contributivi (perché ha raggiunto il tetto massimo), le agevolazioni sono “fruite” sotto forma di credito di imposta.
Faccio presente che, nel momento in cui sto scrivendo questa riflessione (2 aprile 2019) il provvedimento finalizzato a disciplinare il “Bonus Sud”, previsto dallo scorso 1° gennaio, non è ancora stato emanato.
Il cumulo tra i due benefici, però, non sarà automatico, in quanto occorrerà un D.M. “concertato” tra i Ministri del Lavoro e dell’Economia a stabilire le modalità di accesso al predetto credito di imposta: tale provvedimento sarebbe dovuto essere emanato entro il 30 marzo 2019 ma ancora non è apparso all’orizzonte.
Indennità di cittadinanza in un’unica soluzione
Da ultimo, occorre ricordare come il comma 4 riconosca ai beneficiari del reddito di cittadinanza che avviano una attività di lavoro autonomo o di impresa individuale o si inseriscono in una società cooperativa entro i primi dodici mesi di fruizione, un incentivo, in un’unica soluzione, pari a sei mensilità nel limite dei 780 euro. Le modalità di richiesta e di erogazione del beneficio sono rimandate ad un Decreto “concertato” tra Lavoro ed Economia (qui, il Legislatore non ha posto limiti, sia pure ordinatori, per l’emissione del provvedimento) che potrebbe ricalcare quelli che, in passato, furono emanati per la fruizione, in un’unica soluzione, dell’indennità di mobilità (D.M. n. 142/1993) e della ASPI (poi, divenuta NASPI), cosa avvenuta, in esecuzione dell’art. 2, comma 19, della legge n. 92/2012, con il D.M. 29 marzo 2013.
Considerazioni finali
Le criticità già emerse con il varo del D.L. n. 4/2019 sono rimaste anche dopo il passaggio parlamentare e la pubblicazione della legge di conversione n. 26: esse riguardano, soprattutto, la modalità assuntiva che deve essere “a tempo pieno”: se il Parlamento avesse ammesso la possibilità di una assunzione a tempo parziale molti dei vincoli che la impediscono verrebbero meno (mi riferisco, anche a costo di essere ripetitivo, ai diritti di precedenza dei lavoratori a tempo parziale o a termine già in forza presso il datore di lavoro ed al fatto che interi settori, per la loro morfologia operativa, rischiano restare esclusi).
Tale passaggio sarebbe stato importante, in considerazione di scarsa qualificazione professionale che, probabilmente, si troverà in molti lavoratori destinatari del reddito di cittadinanza: il “passaggio” da una forma assistenziale ad una effettivamente occupazionale, sarebbe stato, senz’altro, agevolato.