Articolo: COVID-19: quante questioni aperte

approfondimento di Eufranio Massi per “il mondo del Consulente” (n. 110 – anno X – giugno 2020)

 

 

 

COVID-19: QUANTE QUESTIONI APERTE!

La crisi pandemica che ha attraversato il nostro Paese e che è stata affrontata con mezzi straordinari (penso, ad esempio, a milioni di persone che, improvvisamente, si sono trovate prive di reddito) utilizzando strumenti (penso alla Cassa in deroga) pensata, in altri tempi, per situazioni ben diverse e che, ora, era stata relegata “alla sopravvivenza” di redditi in aree complesse e di difficile soluzione, ha lasciato situazioni scoperte che meritano, magari in sede di conversione del D.L. n. 34/2020, di essere risolte.

Mi riferisco, ad esempio, alla sospensione dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ed alla sospensione delle procedure collettive di riduzione di personale (queste ultime a partire dal 24 febbraio u.s.) che l’art. 46 del D.L. n. 18/2020, riformato dal D.L. n. 34, ha spostato in avanti fino al 17 agosto: il tutto, in un quadro operativo ove il sostegno delle integrazioni salariali autorizzate a vario titolo si è esaurito e le imprese, vuoi per difficoltà di mercato, vuoi per scelta dei titolari, hanno deciso di non riaprire, magari riconsegnando anche la licenza di esercizio.

Prima di entrare nel merito della questione e delle possibili soluzioni credo sia opportuno fare alcune riflessioni che lambiscono, con tutto il rispetto dovuto al Legislatore, la sfera di costituzionalità della norma.

A mio avviso, la sospensione dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (le altre motivazioni sono sempre possibili, come la giusta causa, il giustificato motivo soggettivo, la risoluzione durante il periodo di prova, l’area della libera recedibilità come nel rapporto di lavoro domestico, ecc.), supportata da interventi di sostegno al reddito completamente a carico dello Stato, è costituzionale, in un momento di forte crisi ed in linea con l’art. 38 della nostra Costituzione, laddove si afferma che “ i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”: nel caso di specie l’integrazione salariale “universale” per tutti i lavoratori in forza alla data del 23 febbraio 2020, poi spostata al 17 marzo dall’art. 41 del D.L. 23/2020, risponde al criterio della tutela a fronte di una “disoccupazione involontaria” causata dalla chiusura delle attività a seguito dei provvedimenti adottati per combattere il coronavirus. La sospensione temporanea dei licenziamenti, come istituto eccezionale, non è nuova nell’ordinamento italiano: basti pensate ad un atto luogotenenziale del 1945 che, in ben altri contesti, sospese i recessi in alcune imprese industriali della Lombardia.

La sospensione dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, però, sembra peccare di costituzionalità rispetto all’art. 41 sulla libertà di impresa nel momento in cui non è correlata ad interventi di sostegno a carico della fiscalità pubblica, come nel caso in cui i datori di lavoro hanno esaurito le 9 settimane (quelli ubicati in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna ne hanno altre 4) e con le successive 5, previste dal D.L. n. 34, non arrivano fino al 17 agosto: è evidente come, in sede di conversione, sia auspicabile un intervento del Legislatore, magari togliendo il limite che autorizza la fruizione di ulteriori 4 settimane al periodo intercorrente tra il 1° settembre ed il 31 ottobre, ma il problema, al momento esiste.

I licenziamenti adottati in questo periodo, a prescindere dai limiti dimensionali, sono affetti da nullità cosa che comporta, in caso di ricorso giudiziale, all’annullamento dei recessi con tutte le conseguenze del caso stabilite dal Magistrato. La questione, come detto pocanzi, si pone per i piccoli datori di lavoro, ma anche per le aziende dimensionate oltre le 15 unità che, in caso di cessazione di attività, debbono attivare la procedura ex art. 24 della legge n. 223/1991.

Che fare?

In data 1° giugno è stato emanato dall’INPS il messaggio n. 2261 con il quale l’Istituto, supportato dall’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro, ha precisato che, ai fini del trattamento di NASPI, non rileva il fatto che il recesso datoriale sia nullo perché in contrasto con una disposizione di legge, in quanto l’accertamento della legittimità o meno del comportamento spetta al giudice di merito. Di conseguenza, non è possibile rifiutare il trattamento di disoccupazione, ma l’Istituto si cautela ed afferma che provvederà alla erogazione con espressa riserva di ripetizione laddove il lavoratore, a seguito di decisione del giudice o di un accordo intervenuto in sede stragiudiziale, dovesse essere reintegrato al lavoro.

Un discorso, del tutto analogo, lo riserva l’INPS alla ipotesi, contenuta nel D.L. n. 34, secondo la quale a fronte della revoca di un licenziamento adottato prima del 17 marzo, in deroga alle previsioni contenute nel comma 10 dell’art. 18 della legge n. 300/1970 ed ai costi ed alle sanzioni ivi stabilite, il datore di lavoro inserisca il dipendente negli elenchi dei lavoratori che fruiscono del trattamento integrativo salariale COVID-19: qui viene stabilito il recupero delle somme già corrisposte come NASPI in considerazione della tutela del trattamento di cassa integrazione che verrà riconosciuto al lavoratore. Questa fattispecie, prevista dal Legislatore, probabilmente, troverà pochi proseliti, in quanto la revoca del licenziamento con successiva immissione del lavoratore in un sostegno integrativo del reddito, porta, nella sostanza, in caso di un cambiamento della situazione economica “in positivo”, al momento poco prevedibile, ad una riproposizione del problema alla data del 17 agosto, con tutte le prevedibili questioni correlate.

Tale discorso sulla fruizione della NASPI, susseguente ad un licenziamento nullo apre, a mio avviso, diversi scenari in un momento in cui gli ammortizzatori sociali previsti “non coprono” i dipendenti fino al 17 agosto, come nei casi più volte evidenziati.

Ferma restando la criticità della situazione (il lavoratore può sempre rifiutare l’incontro) è possibile, magari in sede sindacale ex art. 411 cpc, o avanti alla commissione di conciliazione degli ordini provinciali dei consulenti del lavoro (non penso, in questo momento, a quella istituita presso l’ITL ove le convocazioni, a causa del COVID-19, vanno a rilento) sottoscrivere un accordo, magari incentivato, nel quale il lavoratore accetta il licenziamento, dichiarando di rinunciare al giudizio o a sollevare in tale sede anche eccezioni di natura formale? A mio avviso, è possibile, atteso che non sta scritto da alcuna parte che lo stesso debba, per forza, impugnare il licenziamento, affrontare delle spese ed attendere le decisioni del giudice circa la non sussistenza del giustificato motivo oggettivo. Tale tesi è confortata dai contenuti dell’interpello n. 1/2014 del Ministero del Lavoro con il quale, rispondendo ad un quesito di Confindustria, in merito alla validità di una conciliazione, conclusa in sede sindacale, nella quale il lavoratore rinunci al diritto ad impugnare il licenziamento, anche nella ipotesi in cui lo stesso sia stato effettuato in assenza del rispetto della procedura di tentativo obbligatorio prevista dall’art. 7 della legge n. 604/1966. Secondo il Ministero, che cita diverse decisioni della Corte di Cassazione (Cass. n. 22105/2009; Cass., n. 13134/2000; Cass., n. 5940/2004; Cass., n. 304/1998; Cass., n. 4780/2003), “non sembrano sussistere motivazioni di ordine giuridico per ritenere che per un vizio di natura procedimentale non sia ammissibile adire alla disciplina civilistica dell’art. 2113 c.c., con i conseguenti corollari in ordine alla efficacia degli atti transattivi conclusi in tale sede”. La questione, in positivo, si pone anche con il tentativo facoltativo di conciliazione ex art. 6 del D.L.vo n. 23/2015 ove, ad accettazione, in sede protetta, di un licenziamento adottato nei confronti di un lavoratore assunto dopo il 6 marzo 2015, il datore di lavoro offre, ad accettazione del recesso, una indennità, esente da IRPEF, prevista espressamente dalla norma e strettamente correlata all’anzianità aziendale. Il lavoratore ha diritto alla NASPI (che, ovviamente, varia in relazione ai requisiti oggettivi e soggettivi, come ci ricorda il D.L.vo n. 22/2015), secondo le indicazioni fornite dal Dicastero del Lavoro con l’interpello n. 13/2015 e dall’INPS con la circolare n. 142 dello stesso anno.

Per completezza di informazione ricordo che da un punto di vista oggettivo lo stato di disoccupazione involontaria che da diritto alla NASPI discende da:

  1. Licenziamento;
  2. Risoluzione consensuale ex art. 7 della legge n. 604/1966, avvenuta con accordo sottoscritto avanti alla commissione provinciale di conciliazione istituita presso ogni Ispettorato territoriale del Lavoro;
  3. Risoluzione consensuale avvenuta in ragione di rifiuto di trasferimento ad altra sede aziendale distante oltre 50 Km. dalla propria residenza o raggiungibile in 80 minuti od oltre con i mezzi pubblici;
  4. Dimissioni per gusta causa (mancato e ripetuto, pagamento della retribuzione, molestie sessuali, mobbing, modificazioni peggiorative delle mansioni, notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione di azienda o ramo di essa (art. 2112 c.c.);
  5. Spostamento del lavoratore in altra sede senza che sussistano le comprovate ragioni tecniche, produttive ed organizzative;
  6. Dimissioni rassegnate, a seguito dell’iter previsto dl D.L.vo n. 151/2001, nel c.d. “periodo protetto” della maternità;
  7. Accettazione del licenziamento a seguito della procedura ex art. 6 del D.L.vo n. 23/2015, come ricordato dal Ministero del Lavoro con l’interpello n. 13/2015 e dall’INPS con la circolare n. 142/2015;

Altro requisito necessario per la fruizione del trattamento di NASPI , come ci ricordano le circolari INPS n. 94 e n. 142 del 2015, è il possesso minimo di 13 settimane di contributi nei 4 anni antecedenti la richiesta della indennità, purchè risulti, anno per anno, complessivamente erogata o dovuta una retribuzione non inferiore ai minimali settimanali. Per contribuzione utile, secondo il principio di automaticità delle prestazioni, si intende anche quella dovuta e non versata (art. 2116 c.c.). Vale la pena di sottolineare che se il lavoratore nel quadriennio ha prestato attività sia in settori agricoli (ove vige una forma di assicurazione contro la disoccupazione totalmente diversa) che in settori non agricoli, i periodi sono cumulabili ai fini della NASPI, laddove risulti prevalente la contribuzione non agricola.

Il terzo requisito essenziale fa riferimento alle giornate di lavoro effettivo che debbono essere almeno 30 (a prescindere dalla durata oraria) nei 12 mesi antecedenti la domanda di disoccupazione. Il periodo viene ampliato di un uguale arco temporale, a fronte di sospensione del rapporto per malattia, infortunio, CIGS, CIGO anche in deroga con sospensione a zero ore, assenze per permessi e congedi.

Per completezza di informazione (art. 4 del D.L. n. 22/2015) ricordo che la NASPI si correla ad una base di calcolo che risulta dalla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi 4 anni, comprensiva degli elementi continuativi e non continuativi e delle mensilità aggiuntive quali risultano dall’UniEmens, divisa per il totale delle settimane di contribuzione, indipendentemente dalla verifica del minimale e moltiplicata per il coefficiente 4,33. L’indennità mensile è pari al 75% della retribuzione: per il 2020 il valore massimo da prendere a riferimento è 1.227,55 euro, senza alcun prelievo del 5,84%, come previsto dalla legge n. 41/1986. Se la retribuzione mensile supera tale importo l’indennità è incrementata del 25% della differenza tra la retribuzione mensile ed la predetta somma e, in ogni caso, non può superare 1.335,40 euro. La misura dell’indennità è ridotta del 3% per ogni mese successivo al quarto e la durata è strettamente correlata alla metà del numero delle settimane di contribuzione degli ultimi 4 anni, per un massimo di 24 mesi.

Dopo questa breve digressione sulla NASPI e tornando al messaggio n. 2261 dell’Istituto si può affermare che la soluzione prospettata dovrebbe far venir meno quelle situazioni, presenti in passato, ove l’Istituto, a fronte di accettazione del licenziamento, effettuava, comunque, accertamenti in ordine al fatto che dietro tale assenso si nascondessero “dimissioni consensuali” (ovviamente, al di fuori di quelle previste dall’art. 7 della legge n. 604/1966), con un forte connotazione di un “intento simulatorio” al fine di fruire il trattamento di NASPI. Probabilmente, a fronte di casi particolarmente evidenti, ciò resterà ma il campo di indagine si dovrebbe restringere anche perché, lo sottolineo ancora una volta, non sussiste alcun obbligo per un lavoratore, anche a fronte di un licenziamento che potrebbe essere affetto da nullità, di impugnare il provvedimento e di affrontare le spese del giudizio.

Da ultimo, l’INPS ricorda che aveva chiesto all’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro di esprimersi in ordine alla sospensione dei licenziamenti anche nel settore domestico ed alla risoluzione del rapporti di collaborazione coordinata e continuativa per i quali  ultimi sussiste il diritto all’indennità di disoccupazione DIS-COLL.

La risposta del Ministero è stata facile e, in un certo senso, prevedibile.

Infatti, il rapporto di lavoro domestico ha una propria peculiare disciplina e rientra nel campo della c.d. “libera recedibilità”, con la conseguenza che la sospensione dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo non trova applicazione ed il lavoratore, in presenza dei requisiti oggettivi e soggettivi, può fruire della NASPI.

Discorso del tutto analogo (nel senso che i lavoratori possono fruire della DIS-COLL) riguarda la risoluzione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (art.  2 del D.L.vo n. 81/2015): qui la sospensione non sussiste in quanto l’art. 46 si applica, unicamente, ai rapporti di lavoro subordinato e non a quelli di natura autonoma.

Eufranio Massi

Autore: Eufranio Massi

esperto in Diritto del Lavoro - relatore a corsi di formazione in materia di lavoro

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