Agenzia Entrate: demansionamento – tra danno emergente e lucro cessante

L’Agenzia delle Entrate, con la risposta n. 185 dell’8 aprile 2022, ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla rilevanza reddituale del risarcimento per demansionamento e perdita di chance, tra danno emergente e lucro cessante.

 

La Risposta dell’Agenzia delle Entrate

L’articolo 6, comma 2, del Testo Unico delle Imposte sui redditi approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir), prevede che «I proventi conseguiti in sostituzione di redditi, (…), e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti. Gli interessi moratori e gli interessi per dilazione di pagamento costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati».

Al riguardo, in diversi documenti di prassi è stato precisato che devono essere ricondotte a tassazione le indennità corrisposte a titolo risarcitorio, sempreché le stesse abbiano una funzione sostitutiva o integrativa del reddito del percipiente; sono in sostanza imponibili le somme corrisposte al fine di sostituire mancati guadagni (cd. lucro cessante) sia presenti che futuri del soggetto che le percepisce.

Diversamente non assumono rilevanza reddituale le indennità risarcitorie erogate al fine di reintegrare il patrimonio del soggetto, ovvero al fine di risarcire la perdita economica subita dal patrimonio (cd. danno emergente) (cfr. risoluzione 24 maggio 2002, n. 155/E, 7 dicembre 2007, n. 356/E, 22 aprile 2009, n. 106/E, 15 febbraio 2018, n. 16/E).

In linea generale, qualora l’indennizzo percepito da un determinato soggetto vada a compensare in via integrativa o sostitutiva, la mancata percezione di redditi di lavoro ovvero il mancato guadagno, le somme corrisposte sono da considerarsi dirette a sostituire un reddito non conseguito (c.d. lucro cessante) e conseguentemente vanno ricomprese nel reddito complessivo del soggetto percipiente ed assoggettate a tassazione.

In tema di demansionamento, occorre distinguere il danno patrimoniale, derivante dall’impoverimento della capacità professionale del lavoratore o dalla mancata acquisizione di maggiori capacità, con la connessa perdita di chances, ovverosia di ulteriori possibilità di guadagno (cfr. Cass., Sez. lav., 12/06/2015, n. 12253; 10/06/2004, n. 11045; 8/11/2003, n. 16792), da quello non patrimoniale, comprendente sia l’eventuale lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, accertabile medicalmente, sia il danno esistenziale, da intendersi come ogni pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno (cfr. Cass., Sez. Un., 24/ 03/2006, n. 6572; Cass., Sez. lav., 26/01/2015, n. 327; 19/12/2008, n. 29832), sia infine la lesione arrecata all’immagine professionale ed alla dignità personale del lavoratore (cfr. Cass., Sez. lav., 3/05/2016, n. 8709; 20/02/2015, n. 3474; 4/03/2011, n. 5237).

In particolare, come evidenziato nella risoluzione 22 aprile 2009, n. 106/E, la Corte di Cassazione con sentenza 23 settembre 2008, n. 28887 ha accolto il ricorso di un contribuente fondato sulla tesi secondo cui la somma liquidata «non è soggetta a imposizione fiscale ai fini IRPEF in quanto non rappresenta alcuna reintegrazione di reddito patrimoniale non percepito ma piuttosto il risarcimento del danno alla professionalità e all’immagine derivato dal demansionamento».

Per quanto riguarda in particolare, le somme erogate, che trovino titolo nella necessità di ristorare la perdita delle cosiddette “chance professionali” ossia connesse alla privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell’attività lavorativa è stato chiarito che le stesse non sono imponibili.

A parere della Suprema Corte, «posto che la chance è un’entità patrimoniale, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, la sua perdita configura un danno attuale e risarcibile (consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di possibilità attuale), a condizione che il soggetto che agisce per il risarcimento ne provi, anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni, la sussistenza» (Cass. civ. Sez. III, 21 luglio 2003, n. 11322; Cass. civ. Sez. III, 7 luglio 2006, n. 15522; Cass. civ. Sez. III Sent. 25-05- 2007, n. 12243).

Nel ribadire come la perdita di chance, quale elemento di danno emergente che non assume rilevanza ai fini fiscali, debba poter essere concretamente provato dal contribuente, la Corte di cassazione (Cass. civ. Sez. Unite, 24-03-2006, n. 6572) ha puntualmente chiarito che il risarcimento «non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.

Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore».

Da ciò deriva che le somme liquidate a titolo di perdita di chance professionali possono essere correttamente qualificate alla stregua di risarcimenti di danno emergente solo ove l’interessato abbia fornito – in conformità alle indicazioni della Suprema Corte – prova concreta dell’esistenza e dell’ammontare di tale danno.

Sull’argomento, di recente, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 7 febbraio 2019, n. 3632, ha ribadito che «il titolo al risarcimento del danno, connesso alla “perdita di chance”, non ha natura reddituale, poiché consiste nel ristoro del danno emergente dalla perdita di una possibilità attuale» (cfr. Cass. n. 11322/2003).

Nella medesima ordinanza viene messo in rilievo che «il giudice del lavoro ha riconosciuto al ricorrente il risarcimento del danno emergente (consistente appunto nella perdita delle possibilità ricollegate complessivamente alla progressione di carriera) e, per la quantificazione dell’importo dovuto, ha fatto ricorso al criterio di valutazione equitativa con riferimento al maggior stipendio non conseguito».

La Suprema Corte ha ritenuto, inoltre, che «tale criterio rileva ai limitati fini della determinazione del quantum e non è idoneo a mutare il titolo dell’attribuzione, la quale non è riconducibile all’art. 6 T.u.i.r., perché non ha natura reddituale e non è sostitutiva del reddito non percepito».

Nel caso di specie, nella sentenza di condanna dell’istante al pagamento delle somme in esame all’ex dipendente, il giudice adito ha evidenziato come dalla espletata istruttoria orale emerge che sebbene nel 1987, da una precedente sentenza, era stato giudizialmente accertato che le mansioni di archivista erano inferiori rispetto a quelle professionalmente spettanti al ricorrente, esse sono state mantenute dalla società datrice per tutto il resto del rapporto di lavoro, circostanza sostanzialmente riconosciuta dalla stessa Società istante; ciò, ad avviso del giudice, ha rappresentato indubbiamente una lesione della capacità professionale del lavoratore.

Tale sentenza, quindi, evidenzia come il lavoratore abbia adempiuto all’onere di allegazione circa il danno alla professionalità, mentre la quantificazione del danno è stata determinata dal giudice in via equitativa ai sensi dell’articolo 1226 c.c.; al fine di evitare una statuizione arbitraria è stato preso come criterio di riferimento la liquidazione contenuta nella precedente sentenza del 1987, applicando i dovuti incrementi, considerando la lesione alla professionalità per tutto il rapporto di lavoro.

Si ritiene, pertanto, in linea con la prassi citata, che le somme liquidate in via equitativa dal Tribunale adito, a seguito della lesione della capacità professionale del lavoratore, sono da considerarsi non imponibili, in quanto configurabili come danno emergente e quindi volte a risarcire la perdita economica subita dal patrimonio, e pertanto non sono assoggettabili a ritenuta alla fonte ai sensi dell’articolo 23 del d.P.R. n. 600 del 1973.

Pertanto, avendo l’Istante già restituito le ritenute in oggetto all’ex dipendente, potrà recuperare detto importo presentando la dichiarazione integrativa del Modello 770/2021 relativo all’anno di imposta 2020.

A tal fine, nel frontespizio del modello 770/2021 integrativo andrà inserito il protocollo della dichiarazione che si intende rettificare e nel quadro ST andrà indicato il versamento effettuato erroneamente, inserendo nella seconda colonna “Ritenute operate” l’importo 0. Nel quadro SX potrà, quindi, essere fatto valere il credito inserendo la somma versata erroneamente nel rigo SX1 colonna 2 “Versamenti in eccesso” e cumulata nel rigo SX4 colonna 4 “Credito risultante dalla presente dichiarazione“, indicando poi in colonna 5 quanto di essa è già stato utilizzato in compensazione.

 

Fonte: Agenzia Entrate

La Redazione

Autore: La Redazione

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