Cassazione: sicurezza in azienda e responsabilità del datore per la formazione
Con la sentenza n. 21242 del 26 maggio 2014, la Corte di Cassazione ha affermato la responsabilità del datore di lavoro sul mancato obbligo formativo previsto dal TU sulla sicurezza (Decreto Legislativo n. 81/2008), per l’infortunio occorso al lavoratore, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo sia stato munito di tutti i dispositivi di protezione individuale previsti per il rischio connesso e che abbia un’esperienza pluriennale con i macchinari abitualmente utilizzati al lavoro.
I giudici della Suprema Corte hanno spiegato come l’esperienza e le competenze dei lavoratori non possono sostituire in nessun modo la formazione impartita dal datore di lavoro.
La Sentenza n. 21242/2014
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Trieste ha confermato la pronuncia del Tribunale di Pordenone nei confronti di NW, giudicato responsabile del reato di lesioni colpose gravi commesse in danno di un dipendente, N.A., il quale mentre stava lavorando su un apparecchio tritacarne indossando guanti di ferro, con la mano sinistra infilata nel macchinario veniva a contatto con la lama del medesimo, ferendosi e riportando l’amputazione di due falangi. A N.W., quale legale rappresentante di E.B. Srl, è stato ascritto di non aver adeguatamente formato il lavoratore sull’uso della attrezzatura di lavoro ed in particolare sulla funzione del dispositivo di protezione rappresentato dal vassoio del tritacarne e sulla pericolosità insita nell’utilizzo di guanti con maglie di ferro nell’impiego del macchinario.
Per la Corte d’appello, il fatto che il lavoratore avesse una generica consapevolezza della necessità di utilizzare dispositivi di protezione, nella fattispecie il vassoio che egli aveva rimosso, non implica esonero da responsabilità del datore di lavoro quando è provato che nessuna attività di sensibilizzazione al problema della sicurezza era stata svolta e che nessuna direttiva specifica era stata imposta.
2. Avverso tale decisione ricorre per cassazione l’imputato a mezzo del difensore di fiducia, avv. R.C., il quale deduce vizio motivazionale, avendo la Corte di appello affermato che il lavoratore non era stato adeguatamente formato in ordine alle modalità di un corretto utilizzo del tritacarne sulla base del solo fatto che questi aveva tolto il vassoio, componente di sicurezza dell’apparecchio del medesimo, e della deposizione della teste T., che tuttavia – rileva l’esponente – contrasta con quanto asserito dal lavoratore medesimo. In sostanza, il decidente non spiega per quale ragione affermi che risulta provata la circostanza della mancata sensibilizzazione del lavoratore al tema della sicurezza e che a questi non era stata imposta alcuna direttiva, atteso che NA aveva dichiarato di aver lavorato per molti anni con il tritacarne e di esser stato fornito di tutti gli strumenti antinfortunistici. Ad avviso del ricorrente al N. è stata ascritta una responsabilità penale in assenza di condotta colpevole.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è infondato, nei termini di seguito precisati.
3.1. Le censure mosse dal ricorrente si muovono essenzialmente sul piano della ricostruzione dei fatti, prospettando uno svolgimento degli stessi alternativo a quello fatto proprio dalla sentenza qui impugnata, salvo nel rilievo della mancata valorizzazione della personale esperienza del lavoratore; rilievo che attinge, come si dirà, un preciso profilo di diritto.
La Corte di Appello ha affermato che la teste T., ispettrice Asl, a seguito delle indagini esperite in azienda, accertò che nessuna attività di formazione era stata effettuata in favore del dipendente N.A., che non era stato informato delle caratteristiche del tritacarne e sul funzionamento dei dispositivi di protezione. Lo stesso lavoratore aveva affermato di essere consapevole del fatto che togliere il vassoio era pericoloso e di aver già lavorato con macchine simili ma meno veloci. Tale è il quadro fattuale, che questa Corte non può che recepire, essendo stato esposto con motivazione che si propone priva di vizi logici.
Ciò posto, la Corte di Appello ha preso in esame il valore di una conoscenza generica delle modalità di utilizzo dell’apparecchio e dei connessi rischi insiti, affermando che una siffatta cognizione – anche quando derivata dal pregresso svolgimento di compiti analoghi – non surroga l’attività di formazione che il datore di lavoro è tenuto a somministrare al lavoratore. Si tratta di affermazione corretta, perché coerente al quadro normativo.
La giurisprudenza di questa Corte ha tratteggiato i contorni ed i contenuti dell’obbligo di formazione gravante sul datore di lavoro in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Questi ha l’obbligo di assicurare ai lavoratori una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro ed alle proprie mansioni, in maniera tale da renderlo edotto sui rischi inerenti ai lavori a cui è addetto (cfr. Sez. 3, sent. n. 4063 del 04/10/2007, Rv. 238540; Sez. 4, sent. n. 41997 del 16/11/2006, Rv. 235679), senza che abbia rilievo, nel senso di escludere siffatto obbligo, la circostanza della destinazione occasionale del lavoratore a mansioni diverse da quelle cui questi abitualmente attendeva (Sez. 4, n. 11112 del 29/11/2011 – dep. 21/03/2012, P.C. in proc. Bortoli, Rv. 252729; Sez. 4, n. 47137 del 24/09/2007, Ceniamo, Rv. 238659; Sez. 4, n. 41707 del 23/09/2004, Rv. 2302579).
A ciò va aggiunto che il d.lgs. n. 626/94, al quale occorre fare riferimento ratione temporis, all’art. 3, co. 1 lett. s) poneva la “informazione, formazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori ovvero dei loro rappresentanti, sulle questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro” tra le misure generali di tutela, distinguendole peraltro dalla diversa ed ulteriore misura generale costituita dalle “istruzioni adeguate ai lavoratori [art. 3, co. 1, lett. t) d.lgs. n. 626/94; similmente il d.lgs. n. 81/2008, all’art. 15, co. 1, lettere da n) a q)]. Gli artt. 21 e 22 del citato decreto prevedevano e definivano i contenuti degli obblighi di informazione e di formazione, intesi quindi come attività ed obiettivi distinti. In particolare, per quel che qui più interessa, dell’attività di formazione veniva scandito: a) l’oggetto, dovendo aver attinenza specifica al posto di lavoro e alle mansioni assegnate al lavoratore; b) la temporalità, essendo evidenziati per la sua somministrazione i momenti dell’assunzione, del trasferimento o cambio di mansioni, dell’introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove teconologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi, nonché la modifica per evoluzione o per innovazione del quadro dei rischi; c) il coinvolgimento degli organismi paritetici previsti dall’art. 20 (ancora più dettagliato e portatore di limitazioni alle scelte datoriali, quanto a contenuti e modalità di somministrazione dell’attività di formazione, è l’art. 37 d.lgs, n. 81/2008).
Già questo breve tratteggio del profilo normativo dell’attività di formazione che il datore di lavoro deve assicurare permette di evidenziare il seguente principio: “in tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, l’attività di formazione del lavoratore, alla quale è tenuto il datore di lavoro, non è esclusa dal personale bagaglio di conoscenze del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenze che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro. L’apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e delle prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione legislativamente previste, le quali vanno compiute nella cornice formalizzata prevista dalla legge”.
Ne consegue, che la prova dell’assolvimento degli obblighi di informazione e di formazione del lavoratore non può ritenersi data dalla dichiarazione del lavoratore infortunato che indichi una personale pluriennale esperienza dell’uso dell’attrezzatura di cui trattasi.
Piuttosto, una simile circostanza pone il tema dell’accertamento della causalità del reato colposo commissivo mediante omissione, la quale richiede di accertare che la condotta alternativa lecita richiesta al debitore di sicurezza avrebbe impedito il verificarsi dell’evento illecito. Tema che nella fattispecie non è in discussione.
Ne deriva la correttezza della decisione qui impugnata.
4. In conclusione, il ricorso va rigettato.
Segue al rigetto, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., non emergendo ragioni di esonero.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.