Articolo: le assunzioni calano e i voucher crescono: il precariato che avanza
approfondimento di Roberto Camera*
I dati dell’osservatorio sul precariato, pubblicati dall’Inps lo scorso 19 dicembre 2016 e relativi al periodo gennaio-ottobre, riportano dati preoccupanti per l’occupazione.
Gli effetti della decontribuzione sono oramai quasi svaniti; se solo si pensa che nei primi 10 mesi dell’anno 2016 le assunzioni a tempo indeterminato si sono ridotte non solo rispetto al medesimo periodo del 2015 (giustificato dal fatto che nel 2015 vigeva l’esonero triennale di ben 8.060 euro l’anno), ma anche rispetto ai primi 10 mesi del 2014 nel quale non era previsto alcun incentivo generalista.
Il gap negativo tra le assunzioni del 2016 e quelle del 2014 è di ben 63mila assunzioni a tempo indeterminato in meno.
Se consideriamo anche che il 2014 era valutato quale anno nel quale era ancora presente la “crisi” del mercato del lavoro e che nel 2016 è tutt’ora presente una decontribuzione parziale per il primo biennio dall’assunzione (di massimo 3.250 euro l’anno), possiamo ritenere che il problema occupazionale si sta aggravando oltremisura e che ci aspetta un 2017 non roseo.
Inoltre, a parere dello scrivente, i nuovi incentivi per il 2017, messi in campo dal Ministero del Lavoro (esclusivamente nelle aree del Mezzogiorno) e dal Parlamento (nella Legge di bilancio 2017), non risolveranno l’aumento dei tassi di disoccupazione presente nel nostro Paese.
Qui non occorrono provvedimenti tampone o soldi a pioggia, ma interventi strutturali:
- per la riduzione del costo del lavoro,
- per migliorare la formazione scolastica e universitaria in base alle richieste del tessuto produttivo del nostro Paese,
- per delle politiche attive che creino quell’incontro tra domanda e offerta di lavoro che in questi anni è mancato, soprattutto da parte delle strutture pubbliche (Centri per l’Impiego).
Ma per fare questo servono soldi che non ci sono o meglio che servono ad altro, tipo: “Decreto banche: interventi fino a 20 miliardi”.
D’altro canto non può essere considerato positivo l’aumento esponenziale dei voucher acquistati per il Lavoro Accessorio, che sono passati dai quasi 55 milioni del 2014 ai più di 121 milioni del 2016 (dato relativo ai primi 10 mesi del 2016). In appena 2 anni sono quasi triplicati, portando la forma più flessibile/precaria dei rapporti di lavoro a livelli mai raggiunti prima.
L’aumento più evidente, nell’uso di questa tipologia contrattuale, c’è stato in Campania, Toscana e Sicilia, Regioni che hanno avuto un incremento medio del 265%. In particolare, la Regione che utilizza più voucher è la Lombardia che è passata dai circa 9milioni del 2014 ai 22milioni e mezzo nel 2016, seguita dal Veneto che ha praticamente raddoppiato i 7milioni e 700mila voucher del 2014, attestandosi sui 15milioni e 400mila.
Non credo che si possa gioire di una occupazione saltuaria con compensi assolutamente inadeguati rispetto alla prestazione oraria. Faccio presente che il valore netto del voucher, pari a 7,50 euro, non è mai cambiato dalla data di prima vigenza del contratto di lavoro accessorio: 2005 (Decreto 30 settembre 2005 del Ministero del Lavoro). In pratica, la tariffa minima oraria è invariata da ben 11 anni. Ciò è dovuto anche al fatto che detto valore è previsto da un decreto ministeriale e non da una contrattazione collettiva, come avviene per le altre tipologie contrattuali.
Ma in fondo, di cosa ci preoccupiamo: secondo i canoni statistici dell’Istat (glossario Istat) è considerata occupata “La persona di 15 anni e più che all’indagine sulle forze di lavoro dichiara: … di essere in una condizione diversa da occupato, ma di aver effettuato ore di lavoro nel periodo di riferimento (c.d. altra persona con attività lavorativa)“.
Ciò sta a significare che, nella settimana di riferimento della statistica, sono considerati “Occupati” anche quei soggetti che prestano la propria attività lavorativa anche per solo un’ora. In pratica, non esiste un problema voucher, in quanto queste persone risultano “occupate”, con buona pace di quanto rimarcato all’articolo 1 del T.U. sui contratti di lavoro (D.L.vo 81/2015): “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. Ma poi, in fondo, cosa vorrà dire questa frase?
Un’ultima cosa, che non c’entra con l’argomento trattato ma che, comunque, mi ha sconcertato, è la valutazione, da parte dell’Istat, della definizione di “Occupato alle dipendenze”, ripresa sempre dal Glossario utilizzato dall’Istituto di Statistica. In questa definizione, l’Istat fa presente che: “Tra i lavoratori dipendenti sono convenzionalmente inclusi anche gli apprendisti, sebbene essi non costituiscano sotto il profilo tecnico-giuridico una categoria di lavoratori subordinati.”. Non capisco: gli apprendisti – secondo l’Istat – non sono considerati lavoratori subordinati? E allora cosa sono, lavoratori autonomi?
*Le considerazioni sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza