Articolo: Che errore proporre il reddito minimo
approfondimento di Andrea Di Consoli – pubblicato su “L’Unità” del 31 luglio 2016
I dati Istat sembrerebbero drammaticamente perentori: nel 2015, in Italia, hanno vissuto in povertà assoluta 4 milioni e 598 mila persone. La povertà statistica però non coincide mai simmetricamente con la povertà reale, perché esistono parametri “nascosti” o non registrabili che rendono il fenomeno della povertà, almeno nel nostro Paese, alquanto relativo.
Avere l’orto o una terra più estesa da coltivare, fare lavori di sussistenza (spesso in nero), vivere in una casa di proprietà in aree con un basso costo della vita o accudire famigliari anziani godendo di una parte della loro pensione, sono tutte condizioni “sotterranee” di sopravvivenza minima che rendono la povertà statistica assoluta una povertà quantomeno mitigata, attenuata negli effetti più atroci.
Con questo non s’intende sminuire il dramma umiliante e degradante della povertà, ma è necessario che la politica e le politiche che si predispongono per combatterla escano definitivamente dalla tentazione populista della carità di Stato, del paternalismo e del clientelismo assistenzialista. Compito della politica e delle politiche è favorire lo sviluppo della società e dell’economia, fare in modo che tutti abbiano eguali opportunità formative e lavorative, pretendere che lo Stato sia presente con certezza ed efficacia nel momento della malattia fisica o mentale, e che possa garantire una pensione dignitosa a quanti (autonomi o pubblici che siano), giunti a una certa età, sentono di non avere più la forza per stare nel mercato del lavoro.
Di sovente la povertà è determinata dalla disoccupazione, ma uno Stato responsabile ed efficiente non può permettersi il lusso di “aiutare” economicamente quanti, in buona salute fisica e mentale, non riescono a trovare un lavoro o non hanno voglia di farlo, perché questo creerebbe un effetto a catena disastroso (almeno per com’è la mentalità italiana, di fondo approfittatrice e tendenzialmente parassitaria).
Sono molti, tra società civile e politica, che propongono come rimedio alla povertà due estreme soluzioni: il reddito minimo garantito (concesso a chiunque, in età lavorativa, rimanga senza lavoro) e il reddito di cittadinanza (concesso universalmente a tutti i cittadini di un dato Paese indipendentemente dal loro reddito). Sono due soluzioni profondamente sbagliate, soprattutto in un contesto socio-culturale come quello italiano, dove ogni occasione è buona per non mettersi in gioco, per accontentarsi, per vivacchiare, per ritirarsi in buon ordine, per non inventare nuovi percorsi professionali, che sono sempre possibili, per dirla in maniera un po’ semplice, quando ci sono salute e volontà.
E non si tratta solo di mancanza di risorse (poiché in Italia un reddito minimo garantito verrebbe a costare non più di 8 miliardi di euro), ma, appunto, di serietà e responsabilità, perché di tutto ha bisogno, il nostro mercato del lavoro, tranne che dell’ennesima tentazione assistenzialista (ed elettoralistica).
Vero è che con una simile norma i dati Istat registrerebbero un immediato calo della povertà, ma in compenso crescerebbero la tentazione rinunciataria, la pigrizia media, soprattutto dei nostri giovani, nonché il rischio esiziale di un’intera generazione strutturalmente inattiva, magari fino alle soglie estreme della pensione. Questo scenario (auspicato da ideologie populiste e assistenzialiste) sarebbe una sciagura per la civiltà del lavoro, per l’innovazione, per il dinamismo socio-culturale, per il Pil, per le casse dello Stato e per quel principio di realtà e di responsabilità che malamente stiamo riuscendo a trasmettere ai giovanissimi. E sarebbe uno schiaffo a quanti – ripetiamo, in buona salute, requisito fondamentale di ogni lavoro – hanno la volontà e la tenacia di mettersi in gioco, rischiare percorsi nuovi, sperimentare strade e alternative, anche quando le difficoltà sono tante (e nel nostro Paese sono davvero tante, troppe).
Le risorse del welfare, affinché siano sostenibili per il futuro, devono essere destinate al bisogno estremo (malattia acuta o cronica) e al tempo dell’impossibilità del lavoro (anzianità); impiegarle per “assistere” quanti, nel pieno delle facoltà lavorative, non hanno voglia di sacrificarsi e lottare, è un vero “crimine” culturale e finanziario.
Ovviamente un Governo avrebbe solo da guadagnarci, nel proporre il reddito minimo garantito o il reddito di cittadinanza (ne trarrebbe una valanga di voti); ma porrebbe anche le basi, un simile Governo, allo sfascio antropologico e finanziario dell’Italia dei prossimi decenni, avallando col bollo statale una grande menzogna, ovvero che in Italia sia impossibile trovare lavoro e fare impresa, che poi è la più perniciosa delle bugie e il più ipocrita degli alibi per chi vuole impaludare definitivamente il nostro Paese per un misero giro di valzer plebiscitario.